| Tempo di Lettura 6' | Autore Steeeve | Cocktail consigliato Shot |
Foto di Jill Burrow su Pexels

Siamo seduti al tavolino del mio bar a San Francisco, davanti a me una bionda alta almeno uno e settantacinque. Mi guarda dall'alto in basso. Ma non lo fa apposta, con me viene naturale.

Mi sta facendo un'intervista per non so che rivista, l’argomento è Italiani di successo nel mondo dopo qualche quesito generico è arrivata alla domanda che prima o poi mi fanno tutti e che è il mio cavallo di battaglia:

«Da dove viene il nome del suo locale?»

Sono partito con la solita storia:

Qui in america quando leggono il nome del mio bar, che per inciso è uno dei migliori bar della costa occidentale, pensano che abbia sbagliato a scrivere motociclista, invece il nome è giusto e una storia c’è.

Per raccontartela devo partire da lontano, ti va di seguirmi in questo viaggio nel tempo? - le faccio uno dei miei famosi sorrisi a trentadue denti, non le do tempo di rispondere dandolo per scontato e parto.

Mio padre era alto centonovantatre centimetri, un marcantonio, mia madre era alta un metro e ottantacinque, se non si fossero trovati e messi insieme avrebbero passato la vita a dare delle testate agli stipiti, invece a casa nostra tutte le porte erano state fatte su misura, e così le sedie e i letti, sembrava di stare nella casa dei giganti, soprattutto a me - rido e ride anche lei.

Quando ancora fidanzati andavano a messa insieme erano obbligati a sedersi in ultima fila perché se no quelli che capitavano dietro di loro si lamentavano di non riuscire a vedere nulla. 

Per mio padre quella era un’ottima cosa perché lui in chiesa si annoiava non poco; così, a funzione iniziata sgattaiolava fuori e andava al bar, rientrando pochi minuti prima della fine in tempo per sentire il prete dire «Ite missa est».

In quella stessa chiesa si sposarono e per anni mio padre mi raccontò di don Silvestro, un amico di suo fratello maggiore incaricato della parrocchia del paese, che poco dopo aver cominciato la messa per il matrimonio si fermò, guardò mio padre negli occhi e gli disse con un tono ironico che arrivò fino all'ultima fila «Vedi se per una volta riesci a rimanere fino alla fine, se vuoi, al bar a bere un bicchiere, possiamo andarci tutti insieme dopo!» 

E lui, che credeva che il prete non se ne fosse mai accorto diventò rosso come un peperone mentre tutta la chiesa rideva ma non con cattiveria, con quella complicità che c’è nei paesi, dove tutti hanno un soprannome che li identifica un po’ prendendoli in giro e un po’ descrivendoli.

Mio padre era il giandone mentre mia madre era la pertica.

A nove mesi esatti dal matrimonio sono nato io, a causa di una distrazione probabilmente dovuta più dalle due ore passate al bar a bere come degli alpini con gli amici che dall'eccitazione del matrimonio.

Per questo sin da subito i vecchi del paese cominciarono a chiamarmi fiol dal bicér, figlio del bicchiere.

Ma non basta, la sai quella cosa dei piselli di Mendel? 

Se incroci molti piselli verdi con pochi piselli gialli anche a generazioni di distanza possono nascere dei piselli gialli. Si chiamano caratteri recessivi.

Mio padre Giandone, mia madre Pertica, nonni e nonne tutti sopra al metro e settantacinque e io…

Sono andato indietro di almeno 4 generazioni per trovare in famiglia uno alto come me cioè ben centocinquantuno centimetri e mezzo. Non dimenticarti il mezzo centimetro se lo scrivi che ci tengo - ride di nuovo e di nuovo io con lei.

Era uno zio di mia madre, e da lui ho ereditato tre cose, la fama di latin lover, gli occhi azzurri e l’altezza, o meglio la bassezza.

Poi qualche anno fa ho scoperto che, anche se per motivi diversi condividevamo lo stesso soprannome, io per il motivo di prima, e lui per un altro che però a ben pensare andava bene anche a me: qui da noi se uno non è molto alto si dice: L'è acsè bàs che s'àl chèga di bicér ins ròumpen brisa cioè È così basso che se caga dei bicchieri [quando arrivano a terra] non si rompono, quando è stato il momento di decidere il nome del mio locale, per di più un bar, come potevo chiamarlo, se non Il bicèr?

Mi guarda e sorride ancora, si sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mentre la guardo fissa negli occhi arrossisce un po’, mi affretto a toglierla dall'imbarazzo: «qual è la prossima domanda?»

Finita l’intervista le offrirò da bere, la inviterò a cena e poi perché no, la porterò a casa mia per un ultimo… Bicchiere.

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