| Tempo di Lettura 7,5' | Autrice Sara | Cocktail consigliato Long Island Iced Tea |
Foto di Elissa Landry su Unsplash

È il mio posto preferito, ho chiamato apposta una settimana fa per prenotare un tavolino appoggiato alla colonna in modo da essere un po’ nascosto, defilato.
Così seduto vedo gli altri, ma gli altri, non tutti, riescono a vedermi.
È quello che desidero, avere il controllo e non essere colto di sorpresa.

Vengo in questo pub per le partite più importanti, quelle che contano, quelle che il giorno dopo suscitano discussioni e sfottò tra colleghi. Sento che questa la vinciamo, ce lo meritiamo. 

Almeno questo potrebbe andare bene, no?

Per tutto il resto, la mia vita fa schifo, almeno con la vittoria dell’Inter mi riscatterei. Una volta tanto, anche se non sarebbe merito mio.
Sono arrabbiato, anche se da fuori non si direbbe. Non lo mostro, sono bravo a simulare, a non far vedere agli altri cosa provo. A parte l’indifferenza. Sono arrabbiato perché quella promozione doveva essere mia e invece l’hanno data a Vincenzo. Vincenzo, dico io. Arrivato dopo di me, con quel suo modo di vestire finto casual, che siccome resta a lavoro fino a tardi, addirittura rendendosi disponibile anche per il week-end, non avrà una vita, forse nemmeno una morte, sarà immortale, niente, hanno scelto lui. Sarà Vincenzo il nuovo Product Leader del team, ottimo. 

Certo, se non hai una madre anziana a cui portare la spesa ogni due giorni è ovvio che resti a lavorare fino alle 21. 

Certo, se non hai una figlia da aiutare a fare i compiti o che semplicemente vuoi vedere crescere è ovvio che lavori anche il sabato.

Ma la mia vita è questa, e io vorrei tanto spaccare tutto, e invece mi lascio logorare dalla rabbia… CAZZO, SÌ GOOOOOOOOOOOOOOOAL, SÌ CAZZO SÌ.

Esulto controllato ma con vigore, come una lattina di coca-cola agitata e pronta a schiumare. Basta non aprirla, per non far uscire fuori ogni cosa.

Sorseggio la mia birra, e intanto sposto lo sguardo. C’è una giovane donna che mi osserva, almeno credo stia guardando me. Dietro di me non c’è nessuno, mi sono messo qui apposta, quindi devo essere per forza io il soggetto del suo sguardo indagatore. È come se mi stesse studiando, ma perché? Mi rende nervoso, mi raddrizzo sulla schiena come un attaccapanni che non si piega nemmeno con venti cappotti.

Prendo il telefono, attivo la telecamera e controllo se ho qualcosa fuori posto. Niente, sono normale, come sempre. Cosa avrà da guardare? Sarà un’altra che avrà ricevuto la promozione e si sente in diritto di guardare tutti dall'alto in basso? Adesso raggiungo quel tavolo e la metto a posto, le dico che siamo tutti bravi a farci vedere, quando non si hanno altre responsabilità nella vita.

Lo faccio, lo farei. Lo farei se solo ne avessi le forze e il coraggio di esternare quello che sento, ma non ce la faccio. Mi sento in gabbia, intrappolato dentro me stesso. So dove potrei prendere le chiavi per liberarmi da questa cella che è la mia vita, ma non ci riesco. Mi auto condanno all'ergastolo, finché morte non mi separi da me stesso.

Ordino un’altra birra e ci aggiungo anche un panino col salame, me lo merito. Stasera mi merito la vittoria dell’Inter e il panino, da domani insalata e yogurt greco. Quest’estate ho un matrimonio e non posso permettermi di ingrassare, anche se è difficile che succeda, ma non si sa mai. 

Riporto lo sguardo alla partita e ogni tanto vengo distratto da Simona, una signora sui sessant'anni che viene sempre qui anche lei a vedere le partite. Abbiamo parlato qualche volta, più che altro per commentare l’Inter, e quello che mi piace di lei è che non ha peli sulla lingua. Oltre all’Inter abbiamo una cosa in comune: la rabbia. Solo che lei l'esterna, costantemente, appena può e davanti a tutti, io no. Io schiumo come la coca-cola. Lei lo ha capito, e ogni tanto si arrabbia perché non mi arrabbio, come fa lei che ha sempre un motivo per esternare la sua frustrazione. Ce l’ha anche con le rabbie degli altri. Stasera è particolarmente presa male, ogni tanto si gira verso di me, e basta guardarci per capire che vorremmo entrambi entrare nello schermo della televisione per prendere quella palla benedetta e fare goal.

Sta quasi per finire il secondo tempo, e siamo sotto di tre punti.

La donna al tavolo che mi stava osservando si alza, andrà verso il bagno, penso, e invece raggiunge il bancone e ordina una coca-cola. Come si fa a ordinare una coca-cola in un pub? Deve essere una persona maledettamente felice, solo se sei felice non hai bisogno di alcol e bevi una coca-cola. La prende e resta lì, si gira per guardare lo schermo, quindi anche verso di me, un gomito appoggiato al bancone e a un certo punto mi guarda, ricambio, questa volta imbarazzato, e lei alza il bicchiere per dirmi: «Oggi mi hanno licenziata.»

Resto interdetto, cosa le dico? Non me lo aspettavo, me la immaginavo gloriosa come Vincenzo. Forse per questo prima mi scrutava, deve essersi riconosciuta in me, le nostre amarezze si sono allineate.

«Oggi hanno promosso un altro collega al mio posto», mi aggiungo al brindisi.

«Ottimo, brindiamo alla nostra!», la prende bene. Mi sorride e sul volto appaiono due fossette.

«Ok, con una coca-cola?», le domando perplesso e quasi divertito. Quasi.

«Sì, la birra mi fa schifo!»

«Va benissimo, allora!»

Mi sbagliavo, non è felice, è coraggiosa.

«MAVAFFANCULOOOOOOOOO!!», Simona urla alzandosi in piedi con impeto e la sedia cade alle sue spalle. Stiamo perdendo, perderemo anche questa. Si gira verso di me e le dico: «Dai, andrà meglio la prossima volta.»

«MAVAFFANCULO ANCHE A TE, NICO'!»

Prende e se ne va.

Nemmeno l’Inter oggi mi ha regalato una soddisfazione, niente. La donna del brindisi è tornata al tavolo dai suoi amici, io resto ancora un po’ appoggiato alla mia colonna, a finire il mio panino al salame e a pensare che se quella donna è riuscita a brindare al suo licenziamento, io posso anche prendermi delle patatine da sgranocchiare.

Almeno queste me le merito.

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