«FERMI TUTTI, QUESTA È UNA RAPINAAA!»
L’ho detto, sono entrata in questo bar e ho detto questa frase. Urlando e provando a spaventare la gente.
La gente nel locale mi ha sentita e si è girata terrorizzata, qualcuno ha preso anche il telefono per fare un video, credo, e quando poi hanno capito che non ero armata, ma avevo semplicemente in mano una penna, si sono rilassati, si sono messi a ridere, pensando fossi pazza e nulla, mi hanno ignorata.
Dei pazzi non interessa niente a nessuno. Fanno paura.
Ma cosa si deve fare in questo Paese per essere considerati?
Solo perché vado in giro con i capelli rosa non significa che non sia credibile o che non vada presa sul serio.
Non so perché l’ho fatto, ma siccome qui pensano tutti che sia pazza, faccio un po’ quello che mi pare. Intendo di improvvisarmi una delinquente, per i capelli rosa so perché li ho fatti. Mi piacevano così.
Raggiungo il bancone e mi siedo sullo sgabello, un po’ troppo alto per me. Dario mi porta il solito, nemmeno mi chiede cosa voglio. Questa cosa so che può sembrare carina, che ti fa sentire a casa, però almeno domandami il solito, no?
Non puoi dare per scontato che io venga qui per bere sempre Baileys con ghiaccio. O no? E se lo fai, significa allora che non mi conosci, che non sai che posso essere convinta di una cosa e dieci minuti dopo rimettere in discussione tutto. Non lo sai e per questo non mi domandi Il solito? e come un emerito stronzo, perché lo sei, se fai così, mi servi da bere.
Mi credono pazza, per questo non mi fanno più domande.
Ma io pazza non lo sono, sto solo soffrendo, e per me soffrire significa che di punto in bianco ti posso insultare, mandarti a quel paese senza un motivo ragionevole, dirti che fai schifo solo perché hai una briciola incastrata tra i capelli. Questo per loro significa essere pazzi, questo per me, invece, è soffrire.
Mi incazzo, va bene?
Voi cosa fareste se perdeste tutto? Eh? Andreste in giro a dire oh cara, hai della mollica di pane tra i capelli, sei così tenera, sembri un cucciolo di roditore, voi fareste così, no? Che bravi voi, con le vostre parole diafane, delicate, lievi.
Io no.
Non sento più niente, solo la rabbia mi tiene in vita.
Ho perso mia figlia.
Stava tornando a casa in macchina quando un camion non si è fermato all'incrocio e me l’ha portata via. Ve l’ha portata via, perché anche voi, ora, siete a questo mondo senza di lei e vi state perdendo tanto.
State perdendo insieme a me, solo che a voi ancora domandano cosa volete da bere.
Viola non c’è più e io vengo in questo bar per lei. Mi raccontava sempre di questo posto, diceva che c’era un’atmosfera sospesa, un’altra densità. Ora che ci penso, diceva anche che non c’era bisogno di chiedere, forse per questo il barista non mi domanda più cosa voglio. Forse il suo è un modo gentile per stare vicino a una stronza arrabbiata come me.
Ma io non riesco più ad apprezzare quella gentilezza, quella carezza. Per me il mondo è diventato un posto grigio, ho perso le sfumature e non so più dove trovarle. So che Viola non vorrebbe questo, che mi vorrebbe entusiasta, felice, piena di vita, ma ancora non ce la faccio. Per ora riesco solo a venire qui.
Seduto da solo a un tavolo c’è un uomo. Sorseggia la sua birra e ogni tanto quando alza lo sguardo ci guardiamo. È bello, di una bellezza intensa, di quelle che ti scuotono, facendoti dimenticare per un attimo chi sei. È anche giovane, sicuramente più di me, avrà come minimo dieci anni in meno, e io ne ho cinquanta.
Forse non dovrei guardarlo?
Ma io sono pazza, posso tutto.
Torno al mio Baileys che non ho ordinato e senza accorgermene lo ritrovo seduto sullo sgabello accanto, che per lui non è troppo alto. Ci sa fare. Dieci anni in meno, pensa a questo. Dieci anni.
«Ciao Serena»
Mi ha salutato, l’uomo attraente mi ha salutato. Conosce il mio nome. Resto congelata, non mi aspettavo questo contatto umano.
Cosa vuole ora, cosa gli dico, io il suo nome non lo so.
« Scusa?»
« Perdona l'invadenza, ma credo di sapere chi sei, Viola parlava sempre di te. Non ti ho mai vista prima, ma sapevo che eri molto bella e portavi i capelli rosa e quindi ho pensato che fossi tu. Vi somigliate.»
«E come uno stalker hai pensato di venire a salutarmi.»
«Mi aveva anche detto che hai un caratterino!»
«Come conoscevi mia figlia? Sei un porco maiale? Quanti anni hai?»
«Sì, hai un caratterino.
Ne ho 39.»
Undici in meno, non dieci. Undici.
«E mia figlia 20 e io 50.»
«Sì, facevamo Tai Chi insieme e ogni tanto con la comitiva venivamo qua a bere dopo lezione…”
« Ahhhh ok, ora posso respirare.»
«Se non ti va di parlare posso andare via, non volevo romperti le scatole, ma ho pensato che potevamo stare qui al bancone insieme a insultare la gente o semplicemente stare in silenzio.»
È uno di quelli capaci di stare in silenzio? Undici, ricordati, undici.
«Mi hai sentita insultare qualcuno?»
«Sì, l’altra sera, te la sei presa con un tizio che stava bevendo lo spritz senza l’oliva…»
«Ah quello, dai come si fa a bere lo spritz senza l’oliva, scusa?»
«Hai ragione, sono pazzi!»
«Esatto, i pazzi sono loro.»
Siamo andati avanti così per un paio d’ore. La presenza di questo uomo mi ha rasserenata, ma ancora di più mi ha riempito di stupore sapere che mia figlia parlasse di me. Anche bene, credo, se quest’uomo ha deciso di venirmi a parlare, deve avergli raccontato cose belle altrimenti mi eviterebbe come fanno tutti gli altri.
Le persone hanno paura dei pazzi e del dolore altrui. Lui, invece, no. Non ha paura di me.
Nel mentre il barista è venuto anche a domandarmi se volessi altro da bere, vedendomi ridere devo averlo disorientato e quindi ha pensato bene di chiedermelo, questa volta.
Non ho chiesto al tizio che conosceva mia figlia come si chiama. Ci sono cascata anche io in questa cosa del non fare più domande.
Forse lo rivedrò.
Undici anni in meno, posso?
Sì, posso.
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