Entro nel locale e l’atmosfera già mi piace.
È un centro sociale, ma forse io avevo un’idea dei miei tempi del liceo dei centri sociali ovvero sporchi, fumosi, angusti e…incasinati. Che ci stava a 18 anni, ora un pelo meno.
Invece entro e c’è un’atmosfera famigliare da casa di campagna in cui non si sa bene quanti posti letto ci sono, ma uno in più lo si trova sempre e un amico arrivato all’ultimo momento è normale.
Oggi c’è uno spettacolo teatrale, entro ma non devo pagare perché la formula che hanno pensato è il biglietto al contrario: vedi lo spettacolo e poi, in base a quanto ti è piaciuto e quanto ti puoi permettere fai tu un’offerta.
Sono quindi orfano di quella consuetudine fatta di: “Un biglietto grazie” “Ecco, sono 15€” poi guardi il biglietto B-59 e tipo battaglia navale segui le coordinate di file e colonne e vai al tuo posto. Al sicuro. Nell'anonimato.
Ecco quello che qui non c’è, non respiro, è proprio il “tuo” inteso come aggettivo possessivo di qualcosa. Non c’è nulla di tuo: ci sono delle sedie in cui ti puoi sedere, dei libri che puoi leggere e portare via, un biliardino con le palline libere… perché nulla è “tuo” e nulla è, soprattutto, “suo”.
C’è un bancone a destra del locale, mi incammino e vedo che non c’è un menù… la cosa mi disorienta perché non so bene cosa fanno, cosa posso prendere e (lo ammetto) quanto costa.
Il menù è il barista che ti dice cosa c’è quella sera. Anche qui non c’è quella separazione, quella fredda efficienza tanto milanese contactless in cui spesso mi rifugio per non essere visto e non essere toccato. No qui non c’è la carta di credito e neppure il listino prezzi: parli, chiedi, paghi con soldi fisici, reali e, nel frattempo, scambi due chiacchiere.
Dopo aver chiesto a Marco, il barista, cosa c’è quella sera opto per l’opzione più facile e da “centro sociale” che ho in testa: «una birra grazie». Invece di spillarla il barista prende una Moretti da 66cl la apre con un accendino e me la dà: «2€ grazie», un sorriso e già quella birra mi sembra più vera…
Saluto Marco e mi giro verso la sala che è letteralmente una sala normalissima divisa in due: da una parte il palco dall'altra il pubblico: la separazione è data dalla fine delle sedie che a un certo punto si interrompono e indicano che da lì in poi è palco: tutto qui. I confini, quelli belli, quelli che non esistono. Penso.
Le sedie sono quasi tutte libere perché sono arrivato con un po’ di anticipo, potrei scegliere quella che voglio e anche scegliere un posto sui due divani in prima fila: ci sono qua e là poltrone e in prima fila proprio due divani in cui potersi sprofondare… l’atmosfera di casa è sempre più forte.
Non so perché, anzi se ci penso lo so, scelgo un posto sulla sedia più a lato che c’è. Lo faccio per non essere troppo “dentro” alle cose, per avere mentalmente una via di fuga… e quindi i posti periferici, quelli ai margini, sono da sempre i miei preferiti.
Mentre sono lì, inizio a osservare le persone già arrivate.
Sono tutte riunite in piccoli gruppi da due o tre persone e parlano animatamente di un po' di tutto: da problemi al lavoro, a crisi con la ragazza, da analisi geopolitiche, a l’ultimo articolo del virologo.
Sposto lo sguardo da un gruppo all'altro soffermandomi a volte di più su uno per studiarne le relazioni e i rapporti e per carpirne le frasi.
Poi mi perdo nei miei pensieri e, sorseggiando la mia Moretti da 66cl, inizio a pensare ai miei problemi di lavoro, ai miei non problemi con una ragazza che non c’è e vago così guardando nel vuoto.
Quando torno in me il mio sguardo si posa su una ragazza, la prima sensazione è “è una come me”.
È l’unica, infatti, che è da sola nella stanza, che non ha nessuno con cui parlare… e anche lei è seduta a un posto periferico della sala. Lei è seduta sul posto esattamente opposto al mio sulla stessa fila.
Il suo dà sul muro. La vedo, mi viene in mente la Tregua in cui Primo Levi diceva che, appena entrati nelle baracche, i prigionieri stavano con le spalle al muro come per difendersi, per avere almeno un lato sicuro da cui non dovessero arrivare minacce e fossero sicuri. Lei è così: è seduta sulla sedia, ma le spalle le appoggia sul muro, come per sentire fisicamente quella presenza e avere un gigante silenzioso affianco a se.
La osservo.
È appena arrivata. Si guarda in giro per la stanza studiando un poco anche lei gli altri gruppi di persone che sono già arrivati. Si annoia in fretta però perché per lei sono troppo lontani e quindi sono semplicemente una massa informe di vociare.
Allora inizia ad osservare un punto poco più alto di una persona, sul muro davanti a sé e si perde nei suoi pensieri… gli occhi un po’ si muovono ma non sembrano vedere nulla, sembrano muoversi seguendo ricordi più che qualcosa davanti a se. Sta così per un paio di minuti concentrata e in silenzio, mi piace vederla rapita in quell'espressione seria e al tempo stesso rilassata.
Si ridesta poco dopo e prende la birra, anche lei una Moretti da 66cl, e ne beve un lungo sorso guardandosi intorno nel locale.
Non trova nulla di interessante e inizia a grattare con l’unghia dell’indice l’etichetta della birra… non saprei dire perché mi sembra un gesto abituale, un modo per sfogare un po' la tensione, la immagino che si mangia le pellicine intorno alle unghie quando è stressata, stanca o che.
Continua a grattare e un pezzo viene via, lo prende lo guarda e poi cerca di rimetterlo al suo posto sulla bottiglia come a voler ricostruire un mosaico a cui è caduta una tessera.
Poi alza lo sguardo e mi vede.
Mi spiace sia perché ora non sono più nell'anonimato per qualcuno, non posso essere invisibile, sia perché mi piaceva osservarla, e ora che mi ha visto, se la continuassi a guardare sarebbe un po' essere stalker no?
Allora per un poco smetto. Guardo in giro, guardo il cellulare… passano 30 secondi e penso “ok ora non darò nell'occhio se la guardo?” mi volto e lei mi sta guardando ancora. Cazzo sgamato due! Sono un poco in imbarazzo, ma anche divertito…lei sta facendo quello che facevo io prima, e la situazione mi fa ridere.
Girovago con lo sguardo nel locale e fingo indifferenza, cosa che non mi è mai venuta benissimo ma ci provo.
Riguardo nella sua direzione e per fortuna non guarda verso di me, carpisco ancora due dettagli nei suoi movimenti: si sistema spesso i capelli dietro le orecchie come accarezzandosi e si morde la parte alta del labbro sotto come se fosse in procinto di dire qualcosa a qualcuno lì davanti e si bloccasse.
Poi accavalla le gambe mettendo un piede sull'altro un po' in tensione, e mi ricorda una bambina timida al saggio di danza, con tutù bianco nel buio dietro le quinte prima di entrare in scena, con mamma e papà in sala. È quasi il suo turno. Combattuta tra gioia e paura spera che quel momento non arrivi mai e arrivi subito. Si smarrisce tra due desideri e, alla fine, è quasi risoluta a…
Ma non c’è tempo: inizia lo spettacolo.
Sipario.
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