| Tempo di Lettura 12' | Autore Giona | Da bere Caffè Americano |
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“Le tre del mattino” si chiama così il mio bar.

Cioè se lo cercate su Google facile che non lo troviate, e se ci venite di persona beh mi sa che leggerete un bel “Drogheria” sull’insegna, una bella insegna di quelle antiche ancora in metallo con le lettere in rilievo che hanno perso la vernice, ma che si legge ancora quello che c’è sotto, però se poi, disorientati, chiedete a qualche passante “scusi le tre del mattino?” lui ve lo indicherà a colpo sicuro, senza neppure bisogno di chiedere “cercate il bar?” no dirà “lì, quello lì in fondo”.
Beh quindi, vi chiederete, perché si chiama così?
La storia deriva da un orologio. E da una persona. Ma andiamo con ordine.

Questa era in effetti la Drogheria di quartiere. Tempo fa qualcuno l’aveva rilevata con l’idea di farci un lavasecco, ma l’impresa fallì prima di vedere la luce (quelli del quartiere dicono che c’era dietro la malavita, si parlava anche di Vallanzasca… ma si sa, le leggende di quartiere diventano valanghe di parole in un attimo). Fatto sta che c’era questo locale praticamente sfitto. Un giorno ci passai vicino girando per le vie con il mio cane e lo vidi. Non sapevo bene che fare in quel momento della mia vita: appena licenziato e con un buon uscita importante e decisi di fare come nei film: cambiare vita senza neppure sapere cosa facevo sperando nel “vissero tutti felici e contenti”.
Il mio sogno era sempre stato aprire un piccolo bar in cui la gente potesse sentirsi a casa e con questa idea rilevai i muri e diventai proprietario de “le tre del mattino” (che all’epoca non si chiamava ancora così).
Non avevo più molti soldi, anzi non avevo più il becco di un quattrino dopo l’acquisto, e allora iniziai ad arredarlo con vecchie sedie e tavoli recuperati dai mercatini di quartiere, divani abbandonati per l’AMSA (ormai facevo a gara a prenderli prima io), bicchieri e posate scompaiati che recuperavo nelle cantine di amici, tutto così “destrutturato”… ora fa molto figo lo so fa molto boh, cazzo fa non so è lo stile informale attuale, ma quando lo facevo io era per necessità.
E poi divenne l’anima del locale: nessuno si sentiva fuori luogo in quel posto perché il posto era di suo “imperfetto” e quindi accogliente come un salotto in cui non hai sistemato e arrivano gli amici e nessuno se ne frega se il divano ha i cuscini sgualciti.
In tutto questo arrivò anche l’orologio. Non so bene da dove arrivasse, mi pare che l'avessi comprato in un negozio di cinesi: costava poco e valeva poco. Cioè segnava sempre l’ora sbagliata, che per un orologio non è proprio un dettaglio. Ma come ogni cosa che arrivò all’inizio, con l’apertura del locale mi ci affezionai e non volli cambiarlo.
Il fatto è che non perdeva minuti come tutti gli orologi che non vanno, no, lui spesso andava avanti: cioè erano le 14:30 e lui segnava le 15:42, erano le 19:45 e lui segnava le 21:33 così a caso: prendeva minuti come una bestia famelica che divora il tempo, poi sazio si acquietava, si distraeva, ne perdeva un po' e poi si risvegliava e ricominciava a divorare il tempo. Segnava sempre un’ora a caso.
Le battute nel bar fioccavano ovvio, spesso se uno non aveva soldi mi diceva “oh Mario te lo pago alle 15:00 (poi si girava, vedeva che pur essendo le tre l’orologio segnava le 17:14, e mi diceva)… cavolo è già passata l’ora. Oh va beh domani?”. Si faceva per sfotterci. Era il modo con cui il quartiere mi aveva accolto, io elemento da “fuori” tra di loro.
L’unica certezza in tutte questa foresta di ore e minuti era quando chiudeva il locale: sempre alle 3 del mattino.
In quella babele di numeri l’unico punto fermo era quello e quindi iniziarono a chiamarlo “le tre del mattino”: divenne un’istituzione e anche un modo di dire nel quartiere.
Se uno non sapeva a che ora avrebbe fatto una cosa o non aveva voglia di farla, rispondeva immancabilmente “sì sì la faccio alle tre del mattino” che era un modo per dire mai.

Ero affezionato a quell’orologio anche perché era il metronomo del mio amore, o meglio io lo vedevo così (Marco, il mio collega amico, mi definirebbe “sottone” se lo sapesse).
Lei si chiamava Lucia, era entrata una volta nel bar con il suo MacPro nuovo, si era seduta alla mia poltrona preferita, quella dietro la vetrina smerigliata che, con il sole, fa dei giochi di luci tipo caleidoscopio, e aveva ordinato un caffè americano in tazza grande e una fetta della torta del giorno. Me ne innamorai subito. Occhi azzurri, capelli castano chiari tagliati come Valentina, una manciata di lentiggini a incorniciare un sorriso in cui mi perdevo ogni volta.
Iniziò a venire tutti i giorni, sempre verso le 8:30, e prendere sempre caffè americano in tazza grande e una fetta di torta. Io facevo i salti mortali per lasciarle libera la “sua” poltrona (a rischio di venir sfottuto dai clienti storici) e cercavo di essere sempre io a servirla (e Marco, da stronzo, cercava di andare lui) e annotavo mentalmente tutto quello che le piaceva. Un giorno, per esempio, c’era il banana bread, lei pagando disse “buonissima la torta oggi: mi ricorda quella di mia nonna!”.
E il banana bread non mancò mai più da quel momento.
Lo facevo anche a agosto che le banane venivano credo dal Brasile e costavano come tartufi. “Sottone” appunto direbbe Marco.
Io mi inventavo mille modi per attaccare discorso con lei e lei cordialmente rispondeva, parlavamo un po', scherzavamo magari anche… ma poi finiva il punto e prima che io trovassi altro da dire o chiudessi la conversazione con un “vado che mi aspettano i clienti” lei incollava gli occhi al suo MacPro e entrava nel suo mondo da cui tutto era escluso e io con il tutto.
A volte provavo a sorprenderla, tipo a metà mattinata le portavo una fetta di torta senza che me l’avesse chiesta e lei mi guardava stupita e un po' imbarazzata. Il mio gesto, più che un’occasione per aprire un discorso, diventava qualcosa da recuperare, anestetizzare, normalizzare.
Ecco io più mi prodigavo in ogni modo per essere “perfetto” o “apprezzabile” e più boh non funzionava un cazzo.
In quei momenti alzavo lo sguardo e vedevo l’orologio, il mio orologio, che non solo segnava l’ora sbagliata… ma era tipo avanti di due ore buone. Cioè oltre la media del suo errare.
Però non era sempre così: a volte lei era più solare e meno chiusa sul suo MacPro: dopo aver consegnato un lavoro, e quando c’erano pomeriggi senza idee si appoggiava con la schiena alla poltrona e si perdeva con lo sguardo sul soffitto. Allora io mi avvicinavo leggero facendo finta di pulire il tavolo affianco e buttavo lì una battuta… e lei iniziava a parlare, a raccontarsi e chiedere anche. Allora io lasciavo stare il locale e mi sedevo a parlare con lei: mi sedevo in punta della sedia come a dirle “sì sì sto andando, sto qui solo un attimo” e invece sarei voluto stare lì per sempre.
Di sottecchi guardavo ancora il mio orologio sulla parete in fondo e, immancabilmente in quelle occasioni, segnava tipo le 16:35 quando erano le 16:07… cioè praticamente perfetto.
È lì che mi venne il pensiero che il mio orologio era il “metronomo del mio amore” (non ditelo a Marco però, se no mi sfotte a vita).
Cioè mi sfotterebbe a vita se sapesse che io, che mai avevo toccato il mio orologio, a volte la sera, prima di chiudere il locale, andavo alla parete in fondo, tiravo giù l’orologio e regolavo l’ora giusta… non è che davvero ci credessi a questa cosa del orologio = rapporto con Lucia, ma vuoi mai, che mi costa? E lo facevo.
Il giorno dopo, in effetti, la mattina iniziava bene: per me “iniziava bene” vuol dire che iniziava bene con Lucia. Ma poi, immancabilmente, succedeva qualcosa, io preso bene cercavo più confidenza, nel tentativo di essere gentile le portavo una tazza di caffè più colma che usciva macchiandole gli appunti, le parlavo quando lei era in call con quei maledetti auricolari invisibili e mi guardava come dire “ho da fare”… e tutto si rompeva. Allora guardavo lì in alto dove ormai sapete, e lì in alto dove ormai sapete c’era lui che tipo stregatto di “Alice nel paese delle meraviglie” mi sorrideva mostrando un ora sbagliata di almeno due se non tre ore. Si era ripreso il tempo che gli avevo tolto e mi sorrideva minaccioso tipo “non farlo più, intesi!”.

La cosa andò avanti così per un bel po', questo rapporto da tira e molla, tutto nella mia testa ovviamente, e questo tentativo di forzare il mondo e il tempo ai miei desideri durò qualche tempo (saprei anche dirvi i mesi, ma poi direste “sottone” come Marco e me lo evito va).
Pian piano smisi non di interessarmi a lei, in quel sorriso mi ci perdevo ancora, ma di controllarla, di controllare la sua vita in funzione della mia, si controllare se l’orologio era avanti di minuti o ore e definire con questo come sarebbe stata la mia giornata.
Fu in quel momento che avvenne il fattaccio (come lo chiama Marco). Lucia era grafica pubblicitaria e, dopo anni che avevo sempre l’insegna Drogheria avevo deciso che era giusto cambiarla e se tutti chiamavano il bar “alla tre del mattino” era giusto dare al mio bar il suo nome.
In un pomeriggio tranquillo andai da lei e le chiesi se potevo domandarle un favore. Le spiegai la storia dell’insegna e le dissi che ci stava dare a questo bar il suo nome vero. Lei si emozionò per la storia della drogheria (si era sempre chiesta perché si chiamasse così il bar) e volle aiutarmi con la grafica. Mi disse che in quel momento era presa ma ci avrebbe lavorato nei prossimi giorni. Tornai felice dietro il bancone, l’orologio aveva uno scarto di soli 30 minuti, buon segno.
Nei giorni dopo Lucia venne sempre, io di tanto in tanto le accennavo alla storia dell’insegna e lei rispondeva evasiva e un poco infastidita. Mi sembrava come se avesse detto sì e ora se ne fosse pentita. E l’orologio? Prendeva minuti ogni giorno che passava.
Dopo due settimane entrò nel bar visibilmente tesa ed alterata, gridò andando al suo posto “un caffè americano e una fetta di torta, ah vieni che ti faccio vedere quella cosa lì” mi pareva di essere il suo stagista e non mi piaceva. Presi una tazza di caffè e una fetta di banana bread (speravo di addolcirla) e andai verso il suo angolo. Malauguratamente alzai lo sguardo e vidi l’orologio aveva uno scarto di quasi quattro ore.
Pessimo segno pensai. Perso in questi pensieri non vidi la sua borsa appoggiata in mezzo al passaggio, la presi dentro e volai verso di lei portandomi dietro torta e caffè (in tazza grande per chi se ne fosse dimenticato). Il caffè si rovesciò su appunti e sulla tastiera del MacPro e il piattino della torta andò a sbattere contro lo schermo crepandolo.
Quello che successe dopo penso che lo sappia tutto il quartiere: Lucia si alzo come una furia, mi diede del cretino che non sapevo dove mettevo i piedi, che non sapevo fare il mio lavoro e che le avevo appena rovinato gli appunti e rotto il computer con cui lavorava. Io cercai di recuperare asciugando alla bene e meglio il tavolo e gli appunti e dicendo che gli avrei ripagato il computer e che mi spiaceva. Lei si alzò, raccolse la sua roba e, senza neppure dirlo, disse che lì non ci sarebbe più rientrata! Sbattè la porta e uscì.
Dopo ci fu un silenzio denso. Tutti al locale sapevano della mia infatuazione per lei e mi sfottevano sempre, ma con quel modo di fare in cui si è complici anche se ti prendono in giro. Quella porta sbattè non solo per me, ma per tutti. Si sentivano solo i cucchiaini che giravano nelle tazzine del caffè, la macchina del ghiaccio che lavorava incosciente e la radio in sottofondo che suonava un pezzo di Venditti (vai a capire come uno si ricorda le cose).
Poi il figlio di Gino gridò “voglio la brioches alla nutella! non quella vuota!” e quello fu il segnale che la vita poteva riprendere. Tutti tornarono alle loro occupazioni chi a ordinare, chi a servire. Solo io rimasi per 10 minuti buoni ad osservare la porta, fermo. In silenzio. Anche se era a vetri e faceva entrare la luce del mattino, mi sembrava che avesse chiuso la vita fuori.

Dopo quel pomeriggio la vita riprese a scorrere come sempre.
Di tanto in tanto Marco mi chiedeva se avessi sentito Lucia o se si fosse fatta viva, ma io non avevo il suo numero e nessuno nel quartiere sapeva da dove veniva e dove abitava, per cui mi limitavo la mattina alle 8:25 a guardare se sarebbe comparsa questa volta sulla porta del locale, e alle 8:30 smettevo di guardare e ricominciavo a lavorare. Sottone direbbe Marco. Innamorato avrei detto io.
Poi pian piano smisi anche di fermarmi tipo Hacicko quei 5 minuti e la lasciai andare. Nella mia memoria, come lei aveva fatto nella sua vita.
Ormai non guardavo più neppure l’orologio: tanto l’ora che segnava era sbagliata e non vedendolo più come termometro di Lucia, neppure aveva senso guardarlo.
Una sera, sistemando le sedie sui tavoli in chiusura, alzai lo sguardo e vidi che segnava le 2:20 quando erano le 2:50…solo mezzora? Mi sorprese un po', ma poi pensai che il giorno dopo avrebbe recuperato come sempre.
Il giorno dopo, a metà pomeriggio, stavo leggendo la gazzetta in un momento di stanca del locale e alzai lo sguardo e 16:27, guardai il cellulare 16:00…ommioddio solo 27 minuti di scarto.
Iniziai a farci caso e notai che, giorno per giorno, l’orologio perdeva minuti e non ne recuperava più e, lentamente, si andava ad avvicinare allo scorrere del tempo reale. Non forzava più un suo tempo, ma seguiva quello che c’era.
Gli sorrisi complice in questa piccola scoperta.
Ormai era diventato un gioco e volevo vedere se e quando il mio orologio avrebbe lasciato andare la sua corsa personale di controllo e si sarebbe allineato allo scorrere del tempo. Ogni giorno si avvicinava un poco e io gli sorridevo, ogni giorno entravo nel locale e lo salutavo e la sera prima di uscire lo guardavo e mi divertiva vederlo quasi perfetto. Da quando aveva smesso di voler essere perfetto, pian piano stava diventando se stesso: un orologio che faceva quello che era la sua natura, segnare l’ora giusta.
Nel buio delle chiusure mi sentivo complice e partecipe di quella rinascita.

E poi il giorno venne, o meglio la sera: stavo pulendo il bancone e sistemando gli ultimi bicchieri. Tutti i clienti erano andati e ormai c’era quel bel silenzio che mi avvolgeva e in cui stavo bene.
Stavo sciacquando i bicchieri, per poi asciugarli e metterli via. Non so perché ci pensai e allora, con un piccolo sorriso di sfida, presi il cellulare dalla tasca dei jeans e lessi 03:00, mi voltai lento con finta noncuranza con un bicchiere in mano e lo strofinaccio nell’altra e guardai in alto. Segnava le 03:00!! Non potei fare a meno di ridere tra me e me, e dire “ma guarda che sei stronzo… grande che sei!”
Mi pareva come quando litighi col tuo migliore amico e poi fai pace e c’è quel momento in cui sei un po' arrabbiato e un po' tanto felice e alla fine ti viene semplicemente da ridere e basta.

In quel momento sentii i cardini della porta d’ingresso che si aprivano, ero di spalle al bancone e con ancora in bocca quel sorriso dissi “mi spiace siamo chiusi”.
Sentii come risposta “non c’è tempo per un americano in tazza grande e una fetta di torta del giorno?”.
Mi bloccai.
Mi girai.
E La vidi.
Venne al bancone con un’eleganza decisa che solo le donne possono avere. Si sedette.
Le feci subito il caffè e le diedi una fetta di banana bread (non avevo smesso di farlo…) e iniziammo a parlare. I minuti si persero nelle ore e le ore si persero nel mattino che ci trovò assonnati ancora a raccontarci. In quella serata Lucia mi mostrò anche l’insegna che alla fine aveva fatto “Bar Le tre del mattino” con una grafica elegante e decisa come il suo modo di incedere nel mio locale e nella mia vita.
Tempo dopo la feci anche realizzare da un tipografo, ma quando venne il momento dell’inaugurazione e della sostituzione i clienti storici un po' rumoreggiarono dicendo che ormai l’insegna “Drogheria” che non corrispondeva al nome del locale era un’istituzione e non aveva senso cambiarla.
Avevano ragione loro e, dopo averla pagata, non la volli mettere al suo posto, ma ne trovai uno migliore poco dopo.

Ora è la testiera del mio letto e sono felice quando, tornando a casa la sera, alla tre del mattino, la vedo e mi sembra che vegli silenziosa sul sonno leggero di Lucia.

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