| Tempo di Lettura 8' | Autore Steeeve | Da bere Americano |
Foto di Nuff su Unsplash

L’odore la colpì come un pugno che arrivava nello stesso momento sul naso e nello stomaco.

Era odore di sesso, ma anche di corpi non lavati da una parte e corpi profumati dall'altra, che si mischiavano insieme contaminandosi.

Odore di miseria, quello però veniva da tutte le parti.
Odore di sfruttamento e di botte.
Odore di disinfettanti e di fiori freschi sparsi in giro per coprire gli altri odori.
Ma non funzionava pensò la suora, era come cercare di coprire l’odore di una stalla piena di animali e di letame con due gocce di profumo scadente spruzzate su una delle vacche.

Appena entrò tutti si voltarono a guardarla, ma non per il suo corpo bellissimo le cui forme erano malamente mascherate dal vestito, né per il viso, bellissimo lo sapeva, che non poteva in alcun modo celare.
Il motivo per cui la fissavano è che non era cosa di tutti i giorni vedere una suora in un bordello.

Era il primo pomeriggio di un mercoledì, forse l’ora più vuota, nel giorno più triste di un bordello, eppure c’erano comunque almeno una decina di signorine ed il doppio di uomini in sala, anche se era chiaro anche a lei che molti di loro erano lì, come di dice, “a far flanella”.

La tenutaria, che si faceva chiamare Marianne, ma che, originaria della Campania, in realtà si chiamava Maria Annunziata, era una donna sui quaranta, piacente e con due seni abbondanti forse più dei suoi, ma che che non sembravano per nulla subire la forza di gravità, le si fece incontro con un sorriso canzonatorio e le disse «Sorella, mi sa che hai sbagliato porta, il convento è in fondo alla via.»

La suora non disse nulla ma la guardò con un’espressione algida, alzando lievemente un sopracciglio come a dire “non sono qui per scherzare” e per la prima volta da molti anni Marianne si sentì guardata, non per quello che era, cioè la “rispettabile” e temuta proprietaria di un bordello, ma come una bambina sorpresa con le mani nel barattolo della marmellata, ah, quante ne aveva prese quella volta da sua madre, se lo ricordava ancora.

A Marianne sembrò che la temperatura del salone fosse scesa di un paio di gradi, un brivido le percorse la schiena nuda e lei si sentì dire con una voce che non sembrava la sua «Mi scusi sorella, sono così abituata a rimettere al loro posto gli uomini che non mi rendo conto certe volte di essere inopportuna, come posso aiutarla.»
Lentamente il sopracciglio tornò al suo posto, l’ombra appena accennata di un sorriso apparve sulle labbra della suora, ma sparì così velocemente che Marianne pensò di essersela immaginata.

La suora emise un sospiro leggero e disse «Grazie signora, sono io che devo scusarmi per il mio arrivo improvviso e non annunciato, ma avevo urgenza di venire a parlare con lei.»

«Con me?»

«Sì, se ci fosse un luogo dove potessimo farlo da sole mi sentirei meno in imbarazzo.»

Marianne si chiese cosa potesse volere una suora, che ad occhio e croce aveva sì e no venticinque anni, da lei. Non riusciva proprio ad immaginarselo e probabilmente neanche le ragazze e i clienti, visto che nella sala era calato un silenzio totale e non volava una mosca: erano tutti fermi immobili ad ascoltare.

«Venga con me sorella, andiamo su», poi si girò verso quello che nella sua testa era diventato il “pubblico" e richiamando l’attenzione di una delle sue ragazze più fidate, una bella ragazza dalla pelle bianca e i capelli rossi, le disse con un tono secco di comando: «Fiammetta, bada tu alla sala e se nessuno dei ”signori” qui presenti si decide a consumare inizia a spruzzarli con il profumo così ci penseranno le loro mogli a tenerli a casa la prossima volta.»
Non aveva neanche finito la frase, che alla parola profumo una quindicina di uomini erano già scattati verso l’uscita, spintonando per non correre il rischio di dover spiegare perché odoravano di bordello, pur non avendo fatto nulla: non volevano, come si dice, finire cornuti e mazziati.

Questa volta il sorriso sulle labbra della suora era sicuro di averlo visto.
«Faccio strada», disse, e s’incamminò verso le scale che portavano al piano superiore.
Per arrivare al suo ufficio dovettero passare per il corridoio che dava sulle varie stanze delle ragazze. Da almeno un paio si sentivano suoni inequivocabili ma la suora non pareva farci caso.
Entrarono nell'ufficio, una stanzina minuscola ma ordinata e pulita. Marianne si sedette su una poltroncina, lasciando il divanetto di fronte per l’ospite. «Vuole qualcosa da bere sorella, un tè, una limonata? Il caffè non ve lo consiglio, non è di buona qualità, ma se vuole ho anche quello.»

La suora la guardò in silenzio per qualche secondo e nuovamente Marianne si sentì in soggezione, quello sguardo, quegli occhi avevano la capacità di farla sentire in colpa, anche se questa volta non aveva fatto nulla.

Dopo alcuni interminabili secondi la suora finalmente parlò: «No, non voglio niente da te, niente mi hai dato in tutti questi anni, a parte i soldi che mandavi a casa ogni tanto e niente ti ho mai chiesto, sono venuta qui solo per dirti che nostra madre sta morendo e che come ultimo desiderio ha chiesto di vederti».

E di colpo Marianne capì. Capì perché quegli occhi le provocavano turbamento, erano gli occhi di sua madre, montati sul viso di quella che non poteva che essere sua sorella minore, Concetta, l’ultima di sette figli.

«Concetta sei tu?» e subito dopo con una palpabile incredulità nella voce «e ti sei fatta suora?»

Di nuovo quello sguardo, ma questa volta velato di ironia: «Non dire idiozie, lo sai che a me, come pure a te, gli uomini mi sono sempre piaciuti, e pure troppo, ma sai anche che venire dal paese a qui è un viaggio difficile e pericoloso. Per evitare rischi mi sono unita ad un gruppo di suore che hanno accettato di prendermi con loro purché mi vestissi da novizia. Ora però dobbiamo tornare subito al paese, ci ho messo due giorni ad arrivare e non so quanto tempo le rimanga.»

«Mi spiace Concetta, io non ci torno al paese, lo sai perché sono andata via.»

«Ti ho detto che la mamma sta morendo!»

«Sì, ma nostro padre no, vero?»

Si fissarono di nuovo, ma questa volta fu lo sguardo di Concetta quello che si spostò per prima.

Poi, pensando alla madre e a tutte quelle ore di viaggio fatte per venire fino a lì, Concetta ci riprovò con un misto tra determinazione e comprensione:
«Sono 30 anni che non la vedi, è il suo ultimo desiderio, non puoi negarglielo!»

«Dopo quello che mi ha fatto nostro padre non puoi chiedermi questo!»

Nell’aria c’era una tensione di cose non dette, di torti subiti e mai sanati e che il tempo, invece di addolcire, aveva esacerbato.

La vita del paese non era solo una vita di 30 anni fa, per Marianne, ma una vita in cui lei non si riconosceva più: in città, nella capitale, era diventata completamente un’altra persona e non voleva che il passato allungasse le sue mani morbose sul suo presente, guastandoglielo.

«Ti prometto che farò in modo che lui non ci sia quando arrivi: entri, la saluti e torni qui: vuole solo avere tutti i figli riuniti al suo capezzale, che ti costa?»

«Tutti?»

«Si, sta arrivando anche Artemio…»

Colpo basso. Bassissimo da parte di Concetta. Lo sapevano tutte e due, lo si vide subito nei loro sorrisi simmetrici: quello di Concetta sicuro e teso di speranza, quello di Marianne meno forte e già morbido di ricordi.

Artemio era il preferito di Marianne, avevano passato infanzia e adolescenza insieme. Era l’unico che era sempre stato al suo fianco, qualsiasi cosa facesse, e non aveva mai giudicato la sua vita né in passato ne ora. I casi della vita, però, l’avevano portato a lavorare in Inghilterra ed era da circa 8 anni che non lo vedeva e non aveva sue notizie. Rivederlo, abbracciarlo, confidarsi con lui era una speranza improvvisa a cui sapeva di non poter rinunciare per orgoglio.

Concetta sapeva dove colpire e aveva colpito a fondo, ormai la vittoria era solo questione di minuti.

Anche Marianna lo sapeva, ma non poteva farlo vedere: va bene capitolare, ma, se questo lavoro le aveva insegnato una cosa, è che lei, come diceva sempre, “faceva servizi, non servizietti”: ovvero mai e poi mai farsi dire dagli altri cosa bisognava fare.
Lei era artefice del suo destino e delle sue scelte. La cosa doveva essere chiara a tutti. Anche a sua sorella.

«Promettimi che non vedrò quel porco di nostro padre…»

«Te lo prometto: va nei campi la mattina ogni giorno: se prendiamo il treno tra un’ora dovremmo arrivare dopodomani all'alba. Entri. Saluti e troni indietro.»

«Ma che treno e treno, ci andiamo con l’auto se no non arriveremo mai!» Marianne voleva riportare la palla nel suo campo e far vedere chi comandava.

«Ché, hai un’auto ora?»

«Ma figurati… ok fare soldi, ma non così tanti.»

«E allora dove la prendiamo?»

«Mia cara hai visto i signori lì sotto… hanno tutti un’auto e una moglie: se ci danno la prima, non parleremo con la seconda.»

Concetta sorrise sotto il velo. Era innegabile che con quell'intelligenza cinica, di strada Marianne ne aveva fatta, e un po' provava invidia per essere rimasta al paesino: la più bella del paese, di sicuro, ma pur sempre legata a un paese di mille persone, mentre Marianne comandava a bacchetta i signorotti della città.

«Dai prenditi uno dei vestiti più sobri che trovi in quella cassapanca e ci vediamo giù: da suora non ti si può proprio vedere… io inizio a scendere e a recuperare l’auto.»

Concetta era felice. Ormai l’odore aspro del luogo non lo sentiva più, non sapeva bene se perché si fosse assuefatta o perché, più probabilmente, era cambiato qualcosa in lei. Era entrata nella vita di Marianne giudicandola da fuori e bollandola come deviata e criticabile, ma, nei pochi minuti che era stata nella sua maison, aveva visto che lì c’era quello che lei cercava da tempo confusamente, buttandosi in relazioni improbabili: aveva riconosciuto la libertà di essere sé stessa davanti a tutti e il guardare gli uomini allo stesso livello, invece che esserne semplice appendice del loro potere.

Si cambiò velocemente e scese al piano di sotto.

Arrivò mentre Marianne prendeva le chiavi da un cliente che balbettava per l’imbarazzo e la difficoltà a dire no, e un sorriso ancora più ampio di quello di poco fa le incorniciò il viso.

L’immagine che le tornò, confermò la sua suggestione: sì Marianne veniva definita prostituta dagli altri, ma invece di nascondersi e negarlo, lo aveva fatto diventare il suo punto di forza e il mondo, gli altri, ora, stavano alle sue regole. Lei le dettava, lei le cambiava, lei le usava… e il mondo inseguiva.

Salirono in auto:

«Ma tu sai guidare un’auto?»

«E che ci vuole, è come fare l’amore: bisogna essere delicati e decisi e tutto va bene. Conoscere le regole base e saperle infrangere se serve.»

Detto questo, quasi a voler dimostrare l’ultima sua affermazione, Marianne partì in contromano mandando a quel paese due carretti di ambulanti, e quasi investendo una suora che attraversava la strada. Concetta si attaccò alla portiera e quasi gridò:

«Senti, ok che ci mettiamo meno che col treno, ma arriviamoci a casa!»

«Non ti preoccupare… dimmi piuttosto: mamma crede sempre che io lavori in uno studio legale qui a Roma?»

«Si sempre convinta: ormai non capisce quasi più nulla, ma quella è una delle poche certezze che ha… ma perché me lo chiedi?»

La domanda restò nell'aria, Marianne ci pensò un po' su, restò qualche minuto in silenzio e poi disse:

«Sai pensavo se dirle la verità…»

«Ma stai scherzando: vuoi mandarla al creatore prima del tempo?!»

«Ma se sta morendo, almeno sa la verità.»

«Senti lasciala morire serena, ok?»

«Va bene hai ragione… ha già avuto abbastanza dispiaceri.»

Ormai avevano imboccato le strade fuori Roma e la tensione si allentò, Concetta si godeva il vento fresco nei capelli, finalmente liberi dal velo, e la sensazione di libertà di viaggiare leggera.

«Senti…»

«Dimmi Concetta.»

«Ma davvero non vuoi parlare con papà?»

«No. Mai! Dopo quello che mi ha fatto mai!»

«Lo so, ma ormai è vecchio anche lui.»

«Doveva pensarci 30 anni fa, se ci penso mi viene ancora il disgusto per lui e per tutto.»

«Spesso, quando parla di te, gli occhi gli diventano lucidi e si commuove.»

«Grazie tante, ma non ha mai avuto neppure il coraggio di chiedermi scusa.»

«Ma non sapeva come fare, dove trovarti.»

«Sulla busta dei soldi che mandavo a casa c’era scritto l’indirizzo»

«Sì, di un bordello.»

«Ma i soldi non gli puzzavano troppo. Senti non parliamone più: la mamma vuole vedermi e mi vedrà… a suo modo. Ma di papà io non voglio neppure vedere l’ombra sul muro.»

Calò un silenzio denso e pesante. L’allegria di prima era sparita.

Concetta capì così, che la libertà che aveva iniziato ad assaporare è una strana cosa: ti lascia libera di essere quello che sei, ma ti impedisce di non essere quello che sei stata.

 

Arrivarono al paesino che era quasi l’alba. Concetta aveva dormito quasi tutto il viaggio fatto in silenzio da quel momento in poi.

Scesero dalla macchina stiracchiandosi per ridare un po' di energia ai muscoli intorpiditi.

«Sei sicura che lui non c’è?»

«Sì non ti preoccupare: non c’è il calesse possiamo entrare.»

Entrarono da quella porta che era stata chiusa 30 anni fa, un tempo che sembrava, insieme, un minuto e una vita. I ricordi affiorarono potenti, guidati dai profumi: l’odore della farina con cui sua madre faceva il pane ogni giorno, l’odore umido dei panni appesi ad asciugare vicino alla stufa a gas, l’aroma strano e irripetibile delle pipe del papà allineate sulla mensola del camino, l’odore acidulo degli escrementi dei piccioni che da sempre avevano scelto la grondaia sopra l’ingresso come casa, il profumo caldo della cenere che sua madre usava ancora per lavare i panni, anche se ormai i detersivi erano in tutti i negozi, ma valla a convincere.

Entrarono in casa.

«Vado un attimo in bagno a rinfrescarmi, è sempre dove l’ho lasciato?»

«Sì, dove vuoi che sia? Io inizio ad andare da lei. Ti aspetto di là.»

Marianne prese il suo tempo per abituarsi a dov'era ora e per trovare la forza di entrare poi in quella stanza dove tutto era successo e da dove tutto era finito.
Uscì dal bagno dopo 10 minuti e si diresse nella stanza dei genitori.

C’erano già quasi tutti i fratelli e sorelle. Appena entrò tutti si voltarono.
Gli sguardi furono di gioia e i sorrisi di piacere per la sua apparizione improvvisa e insperata: non vide in nessuno quel giudizio sottaciuto per quello che lei era diventata.
Si era aspettata uno sguardo duro da tutti loro, ma in quegli occhi, ora, leggeva solo affetto.
Questo fece cadere la prima di tante barriere che aveva dentro.

Si riprese però subito, non poteva perdere il controllo proprio davanti a quel pubblico, e chiese a Concetta:

«Ma ormai vede qualcosa?»

«Mah non proprio: ombre e poco più.»

Si accostò al letto di sua madre, che stava dormendo di un sonno malato.
Le prese la mano tra le sue e la sentì calda.
Sua madre aveva sempre avuto le mani bollenti… Marianne si ricordò che da piccoli, quando avevano freddo, lei, solo toccandoli, riusciva a scaldarli. Era la loro mamma-magica.
Strinse un po' più forte la mano di sua madre e disse:

«Mamma… ci sono anch'io.»

Sua madre si svegliò. Diresse lo sguardo verso il punto da cui veniva la voce e, pure senza vedere molto, sorrise.

«Che bello ce l’hai fatta… sono così felice. Manca solo Artemio.»

«Tra poco arriva mamma.»

«Vieni qui fatti abbracciare.»

Si chinò verso di lei. Lei prese il suo viso tra le mani e iniziò ad accarezzarglielo… un misto tra il voler riconoscere l’altro e prendersene cura insieme.

«Sei tu, sono così felice.»

«Anche io mamma»

La mano di lei indugiò sulle guance ancora un momento.

«Che bello che sei quando sei senza barba... »

La voce gli si incrinò nella risposta.

«…sì mamma allo studio legale ci obbligano a tagliarcela sempre.»

Ci fu un attimo di silenzio nella stanza.

La mano di sua madre raccolse la prima lacrima di quella serata.

«Mario!»

Si voltò e lo vide.

Suo padre. In piedi sulla soglia, quasi a bloccargli un’altra volta la via di uscita verso la sua vita.

«Mario… scusami.»

Quelle due semplici parole, dette da lui, furono semplicemente troppo per tenere su l’impalcatura del suo dolore.

E Mario, finalmente tornato a casa, pianse…


Questo racconto è stato scritto a quattro mani con Giona.
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