«Quand'è l’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta?»
Questa frase, che pare quasi un gioco di parole, la metteva su facebook sempre una mia amica, Costanza R., ogni volta che andava in un posto nuovo.
Sopra questa frase c’era spesso una foto epocale: spiagge a Cuba, le case abbacinanti di bianco coi tetti blu di Santorini, NY, i tram di Lisbona che salgono vertiginosi sulle colline, una crepes sulla Senna, una caipirinha a Copacabana… e tanta invidia da parte mia.
È anche vero che per Costanza è facile (o forse era, di sti tempi) lei fa la travel blogger ovvero scrive per i giornali che pagano per mandarla in giro in questi posti da cartolina. Sì se pensate al lavoro della vita lei credo che lo abbia: viene pagata per viaggiare e scrivere.
Quella frase "Quand'è l’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta?" mi è sempre rimasta attaccata addosso con invidia (lo ammetto) e stimolo, ma spesso, forse partendo dalle foto di Costanza, pensavo "ok però facile per te… qui massimo che si può fare è vedere la circonvalla" e un po' partendo da lei, pensavo che una cosa nuova dovesse essere «epocale» non so, come se: "se non fosse grande, allora che senso aveva farla e definirla come nuova".
Poi di tempo ne è passato, io sono cambiato e ho ascoltato anche il podcast di Franco Arminio, il poeta che dice di guardare le cose con nuovi occhi e farsi stupire (e fin qui ok) ma diceva che «le cose» potevano essere anche il contatore del gas, una pozzanghera, una mattonella sulla strada di casa… una cosa qualunque e non per forza l’immagine da mettere su IG.
Lui dice: "Io guardo ogni cosa come se fosse bella. E se non lo è vuol dire che devo guardare meglio."
Tutto questo mi è venuto in mente questo venerdì.
Torno a casa dal lavoro e… sarà stato perché ero rimasto chiuso in casa, causa covid da 10 giorni, sarà perché avevo voglia di festeggiare una novità sul lavoro, sarà perché volevo immergermi in un po' di vita, sarà perché mi andava semplicemente una birra, penso che un salto a bere una birra ci starebbe. E ci starebbe anche farlo da solo… lì per lì parte il "da solo" come un "giudizio" come un’incompletezza, come una mancanza… poi mi vengono i due pensieri: quello di Costanza e quello di Franco Arminio e dalla prima rubo la bellezza di fare una cosa nuova che non avevo mai fatto, per la prima volta, e dal secondo prendo la leggerezza che questa cosa sia qualunque piccola cosa senza avere rapporti di scala con aspettative.
Sono io, sono da solo, va benissimo così… non c’è nulla di più!
Sono andato alla Birrofila.
Sono andato lì perché mi piace l’atmosfera da vacanza che si respira, come al parco di Chiesa Rossa mi sembra sempre di essere da qualche altra parte, lontano, quando sono lì, c’è quell'atmosfera di festa del paese, dove ti godi le piccole cose e ti paiono grandi.
Arrivo, guardo il menù scritto sulla lavagna e ordino una birra "Weekend" che mi pare ben augurale e poi è una IPA e a me le IPA piacciono.
Tiro fuori la Moleskine e mi metto a scrivere di me, di quello che sento, di quello che succede… di come sto: bene.
Arriva la birra e inizio a sorseggiarla guardando il locale.
A un tavolo davanti a me è da poco arrivata una coppia: mi sembra che stiano insieme da poco. O forse che lui spera che stiano insieme e lei non sa… o meglio friendzone.
Lui è infatti un po' impacciato, nascosto in questa felpa col cappuccio, nera enorme in cui quasi si nasconde, cerca di avere il controllo della situazione e nello sforzo lo perde: chiama la cameriera con titubanza nervosa e quella passa oltre, prova a imbastire una conversazione che non decolla, cerca di essere bello avendo paura di essere se stesso.
Lei è l’opposto o meglio è come se fosse divisa in due. Dal mio posto vedo meglio lei e mi stupisce come è, appunto, divisa in due dal tavolo: parte sotto è seduta ma i piedi non sono appoggiati ma sono sulle punte, ha dentro una tensione nelle gambe che pare pronta a scattare, mi ricorda una gazzella nella savana che beve, ma sa che al minimo segnale si scappa. La parte sopra invece è rilassata, serena, in controllo, ma quel controllo non dato, come per lui, dal volerlo avere, ma dal non interessarsi di averlo e quindi alla fine guidare lei tutto. Passano un’ora a guardare sul cellulare di lei non capisco bene cosa, lui di massima annuisce solo, confermando quello che dice e sperando così di ottenere il consenso.
Mi sembra che lui sovrapponga approvazione, con affetto… è un errore normale, o almeno io lo sento tale.
Mi sembra di vederli sulla neve a sciare: lui, inesperto, che fa fatica per stare in piedi e nello sforzo non si riesce a divertire anche se sorride, lei, forgiata da anni di vita che si gode quello che viene ogni dosso ogni curva e, insieme, tiene sempre le gambe pronte a scattare.
Lei finisce la birra, lui non ancora… ma lei si alza e lui la segue.
Sorrido di loro e il mio sorriso si incastra nelle parole del tavolo davanti a me in cui due amici stanno commentando la partita di basket che danno, in differita scopro poi, sullo schermo sopra di me. Uno dei due sta dicendo all'altro che «vincono i Nuts, anche se non sembra ora che sono in svantaggio», il mio sorriso viene letto come un "ecchecazzo ma mi dici la fine della partita che stavo guardando e vaffanculo!" allora lui si scusa e mi dice che non voleva bruciarmi la partita. Gli dico che non c’è problema, che manco sapevo che giocavano e che mi interessa più l’NCA che l’NBA (basket universitario vs basket vero) lui scopre che ne so e ci mettiamo a parlare della finale che ci sarà sabato questo… ci scambiamo due chiacchiere a un tavolo di distanza. Poi basta, come è nata, questa chiacchiera finisce senza che si debba trovare la continuazione e senza che si senta che non ce ne potrà essere una. Ognuno torna alla sua birra e io alla mia Moleskine, lui al suo amico. E mi sento bene a non dover essere il ragazzo impacciato di prima a dover sostenere una conversazione: stai con quello che c’è… se c’è il silenzio me lo godo.
Questa è proprio la sensazione della serata: non dover rendere conto a nessuno, non essere esposto, non «dover»… ma stare in quello che non c’è, è bellissimo.
Passo un’ora buona a scrivere sulla Moleskine e semplicemente a guardare il locale, senza pensare a qualcosa.
L’unica cosa che penso è che sarebbe davvero bello fare quelli che, lì per lì, chiamo "Disegni con le parole" ovvero scrivere dei tavoli che vedo e che mi ispirano e poi regalare quei disegni, se mi va, alle persone.
In questo momento però non "sento" nessun tavolo e allora non mi va di farlo perché "è una cosa bella da fare", allora non scrivo nulla e sto nel mio. O meglio un tavolo lo sento, o meglio una persona nel locale la sento… ma è troppo distante da me e, soprattutto per guardarla devo passare con lo sguardo attraverso il tavolo alla mia sinistra, dove una compagnia di 6 ragazzi si è appena seduta.
Sono liceali, sono venuti per festeggiare il compleanno di qualcuno che però non c’è ancora. Allora mettono il regalo, e il festeggiato quando arriverà, a capo tavola e il capotavola del loro tavolo è esattamente dov’è il mio tavolo. Il festeggiato non arriva e loro iniziano a parlare di interrogazioni e professori e mi piace ascoltare i loro discorsi di arrabbiatura, speranza, manifestazioni, gioie, esami impossibili, scelte definitive, paure, prime volte, «per sempre» e «io mai»… mi perdo volentieri in quello che dicono e in quello che ero io alla loro età non guardandoli con superiorità anche se il «per sempre» mi fa, da un po' di anni, strano sentirlo dire. Ma mi piace che per loro abbia ancora quel suono pieno e definitivo che hanno le cose non sbeccate dagli urti della vita.
Il loro amico non arriva e allora gli fanno un video in cui, per la geografia dei tavoli, finisco per essere io a capotavola e entrare nel video: e chi si sottrae a questa goliardata? Fingo di essere l’amico e ringraziarli per il regalo, loro stanno al gioco e scherziamo un po' insieme, minacciano l’amico che se non arriva «guarda che, come ti chiami… Giona apre il regalo al tuo posto» risata generale, calici alzati, «alla tua» e si torna a discorsi «per sempre» e alla Moleskine.
Mi chiama mia sorella, che non sento da mesi. Parliamo con la lentezza di non avere appuntamenti, la fine dell’episodio di Netflix da vedere, la pasta da scolare, il capitolo da finire, "oh scusa ma ora ti devo lasciare…" parliamo come non facevamo da mesi. Parliamo e basta, raccontandoci senza aggiornarci, ovvero senza pensare a tutto quello che ti devo dire, togliendo il devo.
Finisce la telefonata e il festeggiato non è ancora arrivato, ma ora posso guardare quel tavolo senza problemi e, quindi, arrivare a tre tavoli più in là dove c’è la persona che "sento" nel locale.
È una ragazza insieme a dei suoi amici: sono seduti divisi come alle medie: ragazzi da una parte, ragazze dall'altra… i due lati non comunicano molto tra di loro.
Non so cosa mi colpisce di lei, a parte la bellezza, ma non so…. sento che mi colpisce la forza trattenuta. Ogni cosa di lei mi sembra questo: una potenza che è confinata in un corpo ma potrebbe essere molto di più, vorrebbe essere altro, oltre, e potrebbe esserlo.
Inizio a scrivere di lei: da un dettaglio disegno un’emozione, dalla giacca di jeans il suo modo di andare in bici, da come appoggia il bicchiere la sicurezza gentile con cui, al lavoro, risponde alle mail e non si fa mettere i piedi in testa, da come a volte sparisce e non so dove vada il suo esserci e non dipendere da nessuno... questo suo essere un po' maga Circe indipendente e combattiva, dal suo modo poi di ricomparire, la luce che sa dare con la sua presenza alla stanza, come un dettaglio riesce, da solo, a nobilitare un abito, dal suo modo di portare la maglietta con le spalle dritte e sicure… vedo altro che qui non c’è tempo di scrivere. Immagino di lei.
A volte, mentre alzo lo sguardo per rapirle un dettaglio, vedo che mi guarda: ma non con fastidio, ma con curiosità mi sorride come a dire "però poi me lo fai leggere vero?" e io le sorrido di rimando e dico "Sì" col pensiero.
Finisco di scrivere e penso che potrei darglielo, che questo disegno con le parole è vero, non è creato, e in fin dei conti lo voleva pure leggere.
Ma lei è sparita e io sento che la mia serata è giusto che finisca qui, così ché le cose belle non vanno allungate se no perdono la magia.
Saluto i miei due tavoli amici, vado al bancone, pago la birra con il cassiere un po' sorpreso che ne ho bevuta solo una «sono astemio» rispondo: si fa una risata e ci salutiamo.
Metto cappotto e sciarpa e esco, incamminandomi verso l’auto.
La vedo seduta sull'aiuola davanti al locale. È intenta a scrivere sul cellulare.
Alza lo sguardo e mi vede.
Sorride.
«Oh ciao» mi dice.
Sorrido da sotto la mascherina, ma è un sorriso che lei vede. Lo so.
«Ora me lo fai leggere però.»
Ricetta Moscow Mule
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