Tempo fa uscii con questa donna, grassa.
Ecco lo so non è molto politically correct dirlo, ma se ci penso ora ecco mi viene da ricordarmi solo questo: era grassa.
Aveva anche uno strano modo di vestirsi, come se volesse esserci e allo stesso tempo scomparire nella sua fisicità: metteva collane molto appariscenti e grandi, risultavano grandi perfino intorno al suo collo enorme.
La conobbi ad un concerto. Ero andato lì da solo e, tra il primo e il secondo tempo, ero andato a bere qualcosa nel foyer e avevo incontrato Vincent, un amico che non vedevo da tempo.
Lei era lì con lui, lui ci presentò e iniziammo a parlare dato che Vincent si assentò per una telefonata. Quello che mi sorprese in lei fu la sua cultura mascherata: ci mettemmo a parlare del concerto e lei, quasi schermendosi, sciorinò una serie di constatazioni puntuali e di commenti incredibili sull'esecuzione di quella sera. Ne rimasi sorpreso.
Lo confesso e me ne vergogno: vedendo la sua “ineleganza” estetica credevo che la stessa ineleganza doveva “abitare” in lei… e invece in lei c’era una cultura fine e intelligente e, lo ammetto, mi spiazzò.
Mi spiazzò più che altro il fatto, questo so che lo sto dicendo per giustificarmi dall'essere stato tanto gretto nel giudicarla, che lei, pur essendo sicuramente esperta e competente, se ne dispiacesse, quasi vergognasse, come se temesse di dire qualcosa di inopportuno davanti a me, come se io potessi essere il giudice del suo esporsi.
Le chiesi cosa facesse nella vita, ma, un’altra volta il suo corpo enorme e monolitico mi aveva illuso che così fosse anche il suo carattere: lei fu maestra a svincolare la domanda e, ogni volta che poi glielo chiesi in quella serata lei riuscì sempre a riportare l’attenzione su di me e lontano da lei.
Ci dovemmo fermare a parlare perché il concerto stava per riprendere e ci salutammo. Io con una strana sensazione in bocca… come di un muffin salato: qualcosa che vuole essere se stesso, ma si teme e si punisce di essere.
Finito il concerto la incontrai con Vincent all'uscita e venne normale andare a bere qualcosa. Ci incamminammo a piedi, io e Vincent iniziammo a parlare e ci accorgemmo a una semaforo che lei era rimasta indietro. Ci eravamo persi nei nostri discorsi e non avevamo fatto caso a lei, ma lei, quando arrivò di buon passo, e col fiatone, ci sorrise, non riuscendo a parlare con degli occhi grandi da bambina. Ecco aveva uno sguardo da bambina che non riusciva a stare al passo dei genitori e se ne scusa.
Divenne verde, attraversammo e il locale dove volevamo andare era lì.
Stavamo per ordinare quando Vincent ricevette un’altra telefonata (la telefonata ricevuta a metà serata era perché il padre era caduto in casa, ma pareva tutto ok) ora la madre gli chiedeva di portare il padre all'ospedale per controlli… quindi si dispiaceva, ma doveva lasciarci. Lo salutammo. Lei mi parve un po' in imbarazzo per la situazione come se non fosse “abbastanza” per la serata. Io invece ero felice, quella donna mi incuriosiva.
Parlammo ancora del concerto mentre mangiavamo: io un club sandwich, lei un hamburger con cui finì per macchiarsi il vestito.
La serata fu davvero piacevole. Mi incuriosiva sempre di più la sua eleganza interiore: le sue battute pungenti e sarcastiche, soprattutto verso se stessa. Aveva un modo di prendersi in giro spietato e divertito che faceva sì che i difetti che aveva (prima tra tutti la sua stazza) diventassero, nel suo racconto, elementi imprescindibili della sua essenza.
C’era sempre un misto di distanza e affetto nel suo guardarsi… non capii mai davvero se quell'affetto fosse reale o un’autocommiserazione: il modo con cui il carcerato guarda la sua gabbia e, alla lunga, la trova famigliare.
Inutile che ci giri molto intorno… la serata finì a letto. Con la scusa di sistemare un po' il vestito macchiato la invitai su da me. Si leggeva lontano un miglio che era una scusa neppure delle più intelligenti, lo sapevamo entrambi.
Lo ripeto, continuo a pensare che non fosse il mio tipo di donna e se ci penso ora quasi mi fa strano di esserci andato a letto… ma sarà stato l’alcol, sarà stato che non ci si conosceva, sarà stato che non ci conosceva nessuno e, tolto Vincent, nessuno poteva sapere di noi, sarà stato anche un po' il torbido e inconfessabile di questa serata così, ma tutto questo dava quella libertà che da un po' non sentivo.
Lei volle farlo al buio… non voleva farsi vedere. E il bello è che, una volta nuda, per quel poco che vedevo dovevo confessare che era molto attraente. Era sicuramente abbondante, ma nel suo essere, era proporzionata… e, un po' mi vergogno a dirlo, mi ricordava una vicina di casa di quando andavo in vacanza in Calabria da mia zia.
Maddalena. Si chiamava così la vicina di mia zia. Aveva un fisico florido, generoso, tracotante e poi questo seno enorme che ogni volta che mi parlava o mi puliva una guancia io buttavo dentro gli occhi con finta noncuranza. Non so se lei lo sapesse, a volte ebbi il sospetto di sì dato il numero di volte eccessivo che mi puliva le guance o che si strofinava a me, ma non lo dissi mai a nessuno e continuai a tuffare gli occhi e i sogni in quell'angolo proibito di paradiso. Fu lei il mio primo desiderio sessuale… e vedere quel fisico davanti a me… beh mi riportò a quel proibito inconfessabile e mai agito. Ho sempre avuto solo ragazze magre, conformandomi su quello che era “bello” per il mondo e rinunciando, forse, a quello che era bello per me.
Facemmo l’amore… in modo strano che non so dire, ma che ha per me un ricordo caldo. Ho avuto tante scappatelle dal matrimonio, ma tutte sono sfumate nei ricordi, si sono raffreddate con tempo: di pochissime ricordo i dettagli, di nessuna la serata. Di lei sì. Di lei sì, mi ricordo tutto.
Dopo quella serata non l’ho più vista. O meglio l’ho vista l’altra sera al telegiornale: era stata arrestata per una truffa di svariati milioni di dollari fatta con suo marito. E così, alla fine, ho scoperto che lavoro faceva. Ecco perché non me lo disse mai. Forse si vergognava.
Ricordo quella sera.
Ero andata con Vincent a vedere un concerto di Bellini, uno dei miei compositori preferiti. Tra il primo e il secondo tempo stavo bevendo qualcosa nel foyer quando lui lo riconobbe e lo chiamò, si chiamava Robert mi pare, e iniziammo a parlare. Mi fece subito colpo la sua eleganza. Non era un adone, questo no, un filo di pancetta ce l’aveva, ma era impeccabile nei suoi vestiti.
Ci mettemmo a parlare io e lui, Vincent si era assentato per una chiamata, e parlammo un po' di musica. Lui era molto competente, mi sembrava più esperto di me, allora gli chiesi se fosse un compositore o lavorasse nell'ambito. Lui rise dicendo che non era degno di un simile complimento (chissà perché mi ricordo proprio questa sua espressione) e mi disse che faceva il manager, ma che conosceva bene la musica perché sua madre lo aveva obbligato, da bambino, a studiarla. Lo disse con un po' di fastidio, come se sentisse più il dovere che il piacere e che, ora che era libero di essere se stesso, continuava ad ascoltarla cercando di essere completo. Ecco, la cosa che mi colpì fu il suo controllo.
Era elegante certo, ma il suo essere elegante non era disinvolto era sempre un po' trattenuto. Nella musica non si perdeva, la ascoltava per essere pronto, se interrogato, a rispondere. Non vedevo il piacere sotto di lui, eppure, per qualche motivo strano, mi affascinava questo suo anelito alla libertà…
Questi pensieri si interruppero, dato che stava per iniziare il secondo tempo e dovemmo rientrare.
Alla fine del concerto ci rincontrammo e andammo a bere qualcosa: io, lui e Vincent.
Ci incamminammo verso il locale, io rimasi un po' indietro, come sempre, e da dietro, osservandoli, notai meglio le differenze tra i due.
Erano di corporatura uguale lui e Vincent, ma Vincent aveva una schiena muscolosa e robusta, lui invece aveva un che di dimesso, come se le spalle fossero un po' basse a sopportare un peso. E poi la camminata… lì c’era tutto. Quella di Vincent era slanciata, desiderosa di arrivare, la sua invece più controllata, come se ogni passo dovesse essere pensato e non “buttato lì” sempre un po' in osservazione di tutto. E infatti fu lui ad aspettarmi quando si accorse che ero rimasta indietro.
Arrivati al locale Vincent ricevette un’altra telefonata: la madre gli chiedeva di portare il padre in ospedale, si scusò e ci lasciò li da soli.
All'inizio io ero in imbarazzo e lui forse anche, ma cercava di controllare tutto e di farmi stare a mio agio. Mi propose di condividere un antipasto e si sincerò che il mio menù fosse quello senza prezzi… voleva essere gentile e ci riuscì. Essere al centro dell’attenzione non mi è mai piaciuto, ma lo apprezzo.
La sera fu molto piacevole: parlammo di musica e poi di altro: di vita di noi. Lui tra i due, fu quello che parlò di più. Era come se per una vita non avesse potuto parlare e poi, appena data la possibilità, assaporata la libertà, iniziava a dire tutto quello che aveva dentro da anni. Come se ci fosse dell’energia repressa che chiedeva di uscire e di liberarsi. Fu tenero, a suo modo, molto poco in controllo… molto lui davvero.
Non so se per l’intimità che si era creata o per il piacere e basta, cosa che mai mi era successa prima, accettai il suo invito a salire da lui per pulire l’abito che mi si era macchiato e per bere un ultimo bicchiere, ben sapendo che il fine non era il bicchiere, ma il letto.
E infatti finì che facemmo l’amore.
Posso dire che quella sera feci l’amore con due uomini. Mi spiego.
Iniziammo a farlo nel modo “classico” che poi non so se c’è un modo classico davvero, ma diciamo nel modo dei film.
Mi spogliò nella stanza al buio, mai piaciuto a me farlo con la luce, e lui si spogliò, ci incontrammo sotto le lenzuola un po' imbarazzati e appunto lo facemmo come tutti i film fanno vedere e… durò come tutti i film fanno vedere. Poco.
Ecco fu deludente posso dirlo serenamente.
Finito lui si tolse da me e sentivo due imbarazzi dentro di lui: il primo per scoprirci estranei dopo essere stati intimi, il secondo la vergogna per non essere stato all'altezza del momento (quello che sentivo venire da lui). Per fortuna non mi chiese “ti è piaciuto?” perché non avrei saputo cosa rispondere per non ferirlo.
Quello fu il primo uomo con cui feci l’amore quella sera.
Poi iniziammo a parlare, nudi sotto le coperte. Gli raccontai di me, e lui mi raccontò di lui… finimmo a parlare di episodi piccoli dimenticati come in un sogno strano.
Io gli parlai del mio primo bacio ricevuto sul fiume sotto casa mia dal vicino con cui ci eravamo scoperti ragazzi dopo esserci conosciuti bambini per una vita: timidi e impacciati mi aveva baciato all'inizio non sulla bocca ma sul collo e quel punto, quel punto strano tra collo e spalle… per me era semplicemente unico, era stato il mio primo bacio.
Lui mi raccontò, quasi vergognandosi con il lenzuolo sulla faccia, di sua zia o della sua vicina di casa, che era stata il suo primo desiderio sessuale e che aveva sognato in tanti pomeriggi chiuso in bagno temendo che qualcuno lo scoprisse.
Allora, non so perché, gli chiesi quali fossero stati i suoi sogni in bagno e lui, forse per la prima volta più a se stesso che a me, me li raccontò. Erano sogni proibiti per la società, ma erano sogni veri, erano i suoi sogni, erano sogni vivi, erano sogni belli.
Mi girai verso di lui e, seguendo quei sogni, li vissi, li creai, per lui, per noi, in quella notte strana senza stelle e luna in cui, forse coperti da quel buio, ci sentivamo più liberi. Lui mi accolse e mi abbracciò baciandomi quel punto strano e solo mio, solo nostro ora.
Facemmo l’amore per due ore, credo… non so, non ha senso dire quanto durò quella notte. Ma fu nostra, fu bella e, soprattutto, fummo liberi di essere quello che da sempre non avevamo avuto il coraggio di essere.
Chissà poi perché…
Chissà poi perché mi viene in mente di lui proprio oggi dentro questa gabbia le cui sbarre sono ora per me stranamente famigliari…
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