| Tempo di Lettura 10,5' | Autore Giona | Da bere VOV |
Facciamo che - VOV - Barabatjour

Facciamo che…

Non so le ultime parole che ti ho detto o che mi hai detto.
Se ci penso ora, proprio non mi vengono in mente…

Potrei dire, e so di non sbagliare molto, che sono state un “ciao nonna, mangia e stammi bene… torno settimana prossima” al che tu mi avrai risposto con quel sorriso sempre un poco tirato, sempre un po' in controllo di quello che succedeva, quasi a non crederci veramente a quello che veniva detto… perché nella vita ne avevi viste tante, forse, o forse semplicemente perché quello è sempre stato il tuo carattere.

Sei passata in mezzo a una guerra, la ricostruzione di Milano e della tua vita, la vita che ti ha portato via il nonno quando i figli erano piccoli, la chiusura della Drogheria, due tumori… le hai passate tutte uscendone sempre a testa alta, anzi no questo è quello che si dice in questi casi, ma no.

Tu ne sei uscita sempre con la testa un po' più bassa del normale, come per passare attraverso una porta un po' troppo bassa che uno si china per evitare di prendere colpi in testa: per esperienza sa che anche stando dritto ci passerebbe… ma l’istinto è una cosa strana e vagli tu a spiegare la geometria a quello.

E quindi no: tu, per istinto, non alzavi mai troppo la testa, come per paura di esserci, come per paura di farti vedere dagli altri e che poi chissà.

Tutto questo eri tu, e quando ti ho detto quel “ciao nonna, mangia e stammi bene… torno settimana prossima” non sapevo che poi il destino metteva in mezzo una pandemia e le settimane sarebbero diventate mesi e i mesi anni.

E quindi eccomi qui, a due anni e poco più da quella frase, con mio papà che mi chiama, anzi scrive su whatsapp, che in famiglia mai stati molto bravi noi a parlare, figurarsi nel dolore, mio papà che mi scrive “la nonna si sta spegnendo…” e poi uno smile che, ultimamente, è il suo modo per parlare senza dover usare neppure le parole.

Ecco non mi ricordo cosa ci siamo detti l’ultima volta nonna, l’ho scritto per questa scenografia, ma in onestà non lo so.

Ma mi ricordo cosa siamo stati.

Vengono alla mente ricordi piccoli e buffi che sono noi: quando mi portavi a scuola alle medie e mi insegnavi le poesie a memoria che “metti che poi ti chiedono di fare un tema almeno hai già qualche idea” la poesia dell’autunno me la ricordo a memoria ancora ora “cadono le foglie, hanno visto tant'acqua e tanto sole, sbocciate con le tenere viole, cadono prima delle nevi bianche”, o quando la sera salivo da te, noi non avevamo la televisione e allora io e Gaia salivamo da te per vedere i cartoni delle 20, tu ci accoglievi con la coca-cola mentre tu bevevi il VOV e ora quando mi capita di vederlo in un supermercato o in un bar di periferia io penso subito a te, il VOV sei tu, calda e spigolosa insieme, densa e dolcissima come lui per me con quella grafica retrò che non cambia e ti ci innamori anche se non sai perché… e poi il VOV avevi iniziato a darcelo anche a noi ma “non dite nulla a papà e mamma” era il nostro piccolo segreto, mi ricordo delle gite fatte con la tua parrocchia, delle castagnate a cui ci portavi e, come Mary Poppins nella tua borsa avevi di tutto, per me eri la nonna magica, a distanza potrei dire che eri sempre un po' in ansia di non avere con te tutto, ma non lo sapevo e non lo voglio sapere neppure ora che ti ricordo così: da quella borsa tu sapevi tirare fuori ogni cosa servisse, mi ricordo quando tornavo a casa dalle medie e mi dimenticavo sempre le chiavi a casa e venivo da te a chiedertele e tu ti arrabbiavi che ormai ero grande e dovevo pensarci da solo e io a cercare scuse, credo che la mia paraculaggine sia nata sul tuo ballatoio, e mi ricordo quando ero al liceo e iniziavo a viaggiare un po' per il mondo e tu mi chiedevi di cosa avevo visto, e non capivi perché si dovesse andare in giro per il mondo, se c’era tanta bellezza in Italia, tu che non eri mai uscita da Milano dove eri nata, tu, però, che un giorno mi hai regalato un segnalibro con su scritto “La vita è come un libro e chi non viaggia, legge una pagina soltanto” tu che eri ricca di contraddizioni, tu che adesso che eri in casa di riposo ogni volta che ti venivo a trovare dicevi “questo è mio nipote, è ingegnere” e lo dicevi con quell'orgoglio sano, genuino, sincero… in cui vedevi tutti i sacrifici fatti quando eri in filanda a lavorare a 14 anni andando a piedi per 10km a volte nella neve con gli zoccoli di legno e pensavi che ne era valsa la pena, quelle volte, quando tu mi dicevi “ingegnere” sono state le uniche volte che io mi sono sentito orgoglioso di esserlo, perchè lo ero per te.

“La nonna si sta spegnendo…” ha scritto mio padre e io mi chiedo com’è che uno si può “stare spegnendo” e poi ho pensato a te, ai tuoi occhi stanchi di vita, che ne hanno vista forse troppa di vita e allora capisco che a un certo punto uno dica basta, senza cattiveria, senza rancore, ma basta. Basta a 99 anni che noi, da fuori, diciamo “cavolo quasi 100” come se la vita fosse una cosa performativa, come se un 100 è meglio di un 99, ma tu che da dentro la vivi quella vita ci insegni che non ha senso e se è basta è basta e questo mi insegni ancora.

Mio papà mi ha scritto “La nonna si sta spegnendo…” aggiungendoci uno smile che, ultimamente, è il suo modo di parlare senza dover usare le parole. E allora mi sa che dovrò usarle io quelle parole: chiamarlo, chiederli come sta, superare i suoi “sì tutto bene, la sua vita l’aveva fatta” e entrare dalle parti del suo dolore, senza volerlo vedere, ma dicendogli “ci sono”, parlare come camminando sulla sabbia e non lasciare impronte. A volte i figli devono essere padri.

Quindi nonna forse non te l’ho mai detto, ma grazie per quello che mi hai insegnato senza volerlo o senza neppure saperlo.

Mi hai insegnato forse, te lo devo dire, a non essere come te: a non essere spaventato della vita, a non essere sempre timoroso del futuro, a non pensare come tu dicevi “ma io felice felice non lo sono mai stata”, mi hai insegnato che tu volevi esserlo, felice, ma non ti è riuscito bene, ma senza la tua ansia lo saresti stata.

Mi hai insegnato a non avere paura di me.

 

Ah questo racconto doveva essere ambientato in un Bar.

Allora facciamo che lo è stato.

Facciamo che siamo io e te, nonna, in quel bar della stazione quando tornavamo a casa da quella gita e io volevo una cioccolata e non me l’hai presa.

Facciamo che siamo in quel bar e quella cioccolata me la prendi.

Facciamo che siamo io e te e io bevo da una tazza più grande di me.

Facciamo che siamo noi e io ti sorrido felice, con il sorriso enorme disegnato dalla cioccolata sulle guance.

Facciamo che siamo noi, noi due soli in quel bar di una stazione anonima e da lì riviviamo tutto, tutta la vita: incasinata, bella, difficile e divertente che poi abbiamo avuto.

Facciamo che ricominciamo tutto da lì, da quel momento senza aver paura di vivere.

Facciamo che tu mi arruffi i capelli e mi dici quel “ti voglio bene” come non mi hai mai detto.

Facciamo che io ti guardo e ti rispondo “ti voglio bene” come mai ti ho detto.

Facciamo che imparo a dirti “ti voglio bene” quando c’è ancora tempo.

Facciamo che imparo a dire “ti voglio bene” quando c’è ancora tempo.

Facciamo che imparo…

Facciamo che vi voglio bene.

Facciamo che impariamo.

Facciamo che c’è ancora tempo…

Facciamo che…

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